Chablis a febbraio è un paesino schivo, che viaggia a “basso profilo”, come nello stesso periodo fanno i tanti omologhi francesi che si reggono sull’economia del vino. Un paesino circondato da vigne che si distendono spoglie, quasi grige, caratterizzate da una monotonia che in realtà viene spezzata dalle sagome dei potatori e delle loro carrette di metallo (brûlots) che sputano fumo, in cui vengono bruciati i tralci tagliati e gli operai al lavoro si scaldano le mani intirizzite dal freddo.
Ma a Chablis a febbraio 2020 le temperature sono tutto meno che invernali, e ci si chiede se le dita abbiano davvero bisogno di avvicinarsi alla fiamma per non irrigidirsi. Se la stagione continuerà su questa falsariga di calore ce ne sarà in abbondanza, viene da pensare, e lo spartito non sarà molto diverso da quello del 2018 o del 2019. Colpa del cambiamento climatico, pare. Fatto sta che gli Chardonnay freddi e taglienti di questa nobile regione del nord della Borgogna hanno dovuto iniziare a fare i conti con il sole, le temperature alte, la siccità e le maturazioni fuori misura.
Sta succedendo un po’ ovunque, e Chablis non fa eccezione. Ciò che fa eccezione, in questi casi, è la mano del vignaiolo, la sua capacità di interpretare l’annata e i cambiamenti che si porta dietro. E Vincent Dauvissat è la più felice delle eccezioni: schivo come Chablis (il paese) a febbraio, è circondato dall’aurea quasi mistica che noi bevitori, un po’ rincoglioniti dalle bevute seriali e un po’ intimiditi e riverenti verso l’aristocratica riservatezza di certe autorità del vino (ancora meglio se francesi), siamo soliti concedere a quelli che definiamo mostri sacri.
Ci si avvicina quindi alla sua cantina con la testa bassa. L’insegna all’esterno è davvero povera, quasi invisibile. Gli inglesi direbbero understatement. Per me è un gusto per l’essenziale tutto francese, ma attenzione, non di tutti i francesi. Qualcun altro forse parlerebbe di snobismo, ma io tenderei a non essere d’accordo, non del tutto. Fatto sta che, come gli appassionati del genere sanno, da loro si assaggia quasi sempre in cantine scure, tra le botti, in piedi e al freddo, che le sale degustazione lussuose e le comitive “anche no”. In questo senso, e solo in questo senso, si dà il caso che Dauvissat non faccia eccezione: una breve scala in pietra ripida e sconnessa scende dal cortile alla cantina di affinamento, un vecchio locale umido e pieno di barrique, tra cui spuntano alcune bottiglie prive di etichetta e già aperte.
Ma una volta che il vino arriva nel bicchiere si capisce subito dove sta l’eccezionalismo di Vincent. Assaggiando l’annata 2018, ricca e potente a causa dei “gretini” – ops, del cambiamento climatico – notiamo sì ricchezza e potenza, ma anche un filo rosso che unisce tutte le etichette: è la proverbiale tensione, che di solito associamo a una verve acida e minerale, ma che qui a me pare trascenda le possibilità di una definizione precisa, perlomeno con le limitate capacità descrittorie di cui dispongo. In buona sostanza i vini del 2018 targati Dauvissat scavalcano con un balzo deciso le potenziali pecche del millesimo (grassezza e poca acidità), grazie a quella firma peculiare (tensione e vitalità) che li ha sempre resi grandi. Una firma che si avvantaggia di una viticoltura sostenibile, con pratiche e preparati biodinamici, delle rese basse in vigna, della fermentazione con lieviti indigeni, dell’affinamento senza bâtonnage né chiarifiche, e più in generale di una conoscenza maniacale del proprio mestiere e di un’idea precisa e illuminata di vino, perfezionata durante anni di esperienza.
Insomma, se le montagne russe degli ultimi millesimi, con produzioni prima dimezzate poi consistenti, lavate dalla pioggia e quindi colpite dalla siccità, con gelate primaverili e caldi torridi per tutta l’estate possono lasciarci qualche lumicino di speranza, questa risiede tra le mani di quei vignaioli che lavorano in simbiosi con la vite e fanno il vino mettendosi “in ascolto”. Cambia il clima e cambierà la geografia enologica, e in questo contesto l’unico bene inalienabile rimarrà la sensibilità produttiva del vignaiolo di turno, unico strumento in grado di opporre una temporanea resistenza ai mutamenti epocali che stiamo vivendo. I vini di Vincent Dauvissat ne sono la dimostrazione.
Petit Chablis 2018: sembra tutto tranne che un Petit Chablis. Sostengo da tempo che la grandezza di un vignaiolo si misura anche dalla sua capacità di realizzare superlative etichette “di ingresso”, e se questo metro di giudizio ha un senso Vincent lo conferma proprio qui. Figlio di un terreno calcareo molto duro, è dotato di finezza, di un’alcolicità presente ma discreta, e di un sorso sì pieno, ma anche profondo.
Chablis 2018: più ricco e strutturato del fratello minore, all’olfatto è già molto ben definito.
Sechet 1er Cru 2018: qui domina la mineralità, pur in presenza di sbuffi vegetali e agrumati. Il sorso è polposo ma (di nuovo) ci muoviamo in un quadro fatto di tensione e dinamicità. Fa della persistenza la sua cifra distintiva, confermandosi senza alcun dubbio come una delle etichette più interessanti di Vincent. Di sicuro è sempre quella più dritta e galoppante.
Vaillons 1er Cru 2018: da vigne poste sopra al Sechet, è molto diverso. Al naso risulta abbastanza trattenuto, e la bocca è ricca ed esplosiva, matura e densa. Sembra essere più indietro del suo predecessore, anche se sul finale la dinamica gustativa si precisa e si raffina molto, restringendosi con grande misura: secondo Vincent è la caratteristica del terreno a dare questa impronta.
Montée de Tonnerre 1er Cru 2018: da viti abbastanza giovani, è timido nei profumi e al palato risulta avvolgente. Anche lui mantiene però verticalità e persistenza, nel contesto di una trama gustativa che non saprei definire in altro modo che stratificata.
Foret 1er Cru 2018: segnato da un profilo olfattivo ancora giovanile, ha una bocca che già denota notevole energia.
Preuses Grand Cru 2018: un caleidoscopio di mineralità, con piacevoli cenni gessosi. Un vino di grande eleganza, stratificato, profondo, strutturato, ma dotato anche di levità gustativa e di sapidità. Davvero superlativo, se la gioca con Sechet.
Le Clos Grand Cru 2018: meno espressivo in gioventù, viene da una vigna che sviluppa maggiore rotondità e voluminosità. Avanza in bocca con una dimensione più gastronomica, nobilitata da una sapidità che alleggerisce il quadro gustativo. Da attendere.
Sechet 1er Cru 2005: la bottiglia era aperta da quindici giorni, l’annata straordinaria. Non ci si stupisce pertanto di trovare un vino ancora perfetto, che si presenta con lievi cenni mielati a dare complessità a un profilo floreale ben definito. La bocca è molto compatta, e denota la classica integrazione gustativa di un vino maturo e nel pieno delle sue forze. Il finale è lunghissimo e convincente. Si potrà ancora usare la parola capolavoro o è troppo inflazionata?
Comments are closed.